La grappa, inventata per alleviare la fatica dei contadini e che io chiamo
sangue di fuoco, è per noi italiani un vero e proprio “morso di vita”.
M’auguro che lo diventi per gli uomini d’ogni parte del mondo.
In linea molto ma molto generale, la grappa, figlia naturale delle zone
del Nord d’Italia, prima degli anni ’70 costituiva l’elementare integrazione
del mantello e del focolare nella lotta contro il freddo.
Proprio l’essere il termosifone dei contadini, l’ha esclusa per secoli
dai saloni e dai salotti, in quanto ostica ai costumi ed ai palati fini.
Nei primi anni ’70, le grappe entrano nei mobili-bar per la degustazione a sé sole e nei cocktails.
Da sottoprodotto della lavorazione del vino si fa prodotto autonomo e singolare grazie alle cure selettive che le vengono dedicate.
I vini hanno l’anima, soprattutto, dalle loro radici e l’uomo ne accompagna, solo, la nascita. Le grappe hanno l’anima soprattutto dall’uomo che dà loro la vita.
Il vino è il canto della terra verso il cielo. La grappa è il tentativo immanente – e tuttavia fluttuante tra l’angelico e il diabolico – di trattenere quel canto.
Le grappe di cru hanno infinite suadenze, individue caratteristiche, e quindi differenze.
Fossero le grappe prodotte tutte con volontà puntuale del meglio, col proposito di artigianale perfezione, conquisteremmo – essì amici, altro che whisky e cognac – i mercati del mondo.
Spazi nuovi – molto più ampi di quanto non si possa credere – si sono aperti con la distillazione delle uve.
Nessun paese al mondo più dell’Italia, neppure la Francia, ha un ventaglio di uve tanto largo e tanto specifico, per le infinite varietà e qualità aromatiche.
Ed anche per le acqueviti d’uva abbiamo l’eccitante incognita della maturazione in carati.
Se la distillazione italiana imboccherà queste vie, passeranno pochi anni e saremo i primi proprio nel mercato altamente redditizio e in evoluzione dei distillati nobili.