Entrai la prima volta nel suo studio, inverno 1985; Gino Veronelli era da anni prestigiosa e popolare personalità, io un ventunenne con il futuro da inventare. Sapevo di lui da un paio di lustri, per i ricordi delle trasmissioni televisive, la circolazione in casa mia del mensile Vini e Liquori (ne è stato, dal ‘75 al ‘79, direttore) e, ancor più, le parole ammirate – un’irriducibile – di mia madre (oh, i suoi occhi, quando le raccontai che lo avevo avuto di fronte a me, in carne e ossa: tanto luminosi che avrebbero rischiarato la più buia delle stanze).
Qualche mese dopo quell’incontro, mi trovavo a risistemare la sua biblioteca, una signora biblioteca, quasi 9000 libri: un’immersione in uno spazio fisico (un intero piano della casa) e “fantastico” (toccavo con mano volumi mai visti né conosciuti, persino rari e preziosi), non consueta per un giovane. Mi piaceva quel compito; ad infiammare poi il mio entusiasmo – io studente di Scienze Religiose – la raccolta di testi del ‘700 francese (culla dello scientismo e delle moderne libertà dell’individuo, oltre che di un feroce anticlericalismo), i cui autori Veronelli amava particolarmente. Scoprii così che aveva studiato e insegnato filosofia; avuto rapporti (ne aveva ancora) con varie figure della cultura italiana; fondato una casa editrice, Veronelli Editore, e pubblicato – non senza osteggiamenti, ritenute pericolose per la morale dell’epoca: siamo negli anni 50 – opere di Anatole France e de Sade (di quest’ultimo, Storie, storielle e raccontini, illustrazioni di Alberto Manfredi; divenne un clamoroso caso editoriale, con tanto di processo per oscenità, sequestro e rogo pubblico delle copie); che era interessato all’estetica e all’arte. Insomma, erudito come pochi e bibliofilo raffinato.
Scoprii anche il suo ateismo, il pensiero controcorrente, lo stile provocatorio, le aspre polemiche in difesa dei vini e dei cibi buoni, della civiltà contadina, dei piccoli produttori e degli artigiani, contro i poteri forti e prepotenti.
Ebbi non poche gioie da quell’incarico, tra cui il permesso – di fatto un privilegio, che Veronelli mi concesse con semplicità di modi disarmante, ma con l’avvertenza del massimo rispetto – di consultare tutti i volumi che avrei desiderato; e non mi precisò di farlo fuori orario di lavoro, così come non mi diede orari “dentro”: una lezione importante sul principio dell’assunzione di responsabilità, la cui declinazione anarchica, in lui, mi fu chiara solo più avanti.
Man mano la catalogazione prendeva forma, compresi che la sua grandezza originava – oltre che nelle doti d’intelligenza, nelle geniali intuizioni, nella determinazione da “missionario”, nel naturale carisma – dall’’”abbeveramento” continuo all’enorme giacimento letterario di cui poteva disporre, su cui si era formato e, attenzione, continuava a formarsi: documentarsi era per lui necessità, leggere vitale. Un dettaglio su tutti: nel suo studio, uno scaffale solo per i dizionari; gli chiesi un giorno, con ingenuità tutta giovanile, perché ne faceva uso, lui che – pensavo – non ne aveva bisogno; risposta: “Le parole hanno sfumature, voglio essere sicuro di utilizzare sempre quella giusta” (umiltà?, pignoleria? Per me, anche questa una lezione).
Fu soddisfatto del mio lavoro. Me ne propose uno nuovo, curiosissimo: un libro sugli aspetti negativi della società e del popolo svizzeri. Io, forse contro la sua convinzione, non mi scomposi, sia per incoscienza sia – coincidenza incredibile, ma stetti zitto – per una sufficiente preparazione sull’argomento, grazie a ricerche liceali, tornate utilissime. Gli chiesi un mese e mezzo di tempo; puntuale, gli portai il mio piano dell’opera, con sua (compiaciuta) sorpresa. Non passò molto tempo, mi chiamò e mi svelò trattarsi di un “test”; siccome l’avevo superato, potevo cominciare a lavorare con/per lui. Cominciai.
Quasi 20 anni. Tanto è durato il nostro rapporto, interrotto solo dalla sua scomparsa.
Tempo in cui ho vissuto molteplici esperienze (con e senza di lui), incontrato innumerevoli persone, appreso – della vita e della professione – un po’.
Mi si chiedesse “ma per cosa si è battuto Veronelli?”, non avrei esitazioni: per una società nuova e giusta, al centro l’Uomo e la Terra.
Gian Arturo Rota
Gian Arturo Rota, 46 anni, studi umanistici, è cresciuto professionalmente con Luigi Veronelli, sino a divenire amministratore della sua casa editrice. E’ stato curatore della guida I Ristoranti; autore di Sagre e feste d’Italia, del Dizionarietto gastronomico (per Veronelli Editore), de Mangiare Lungocosta (per Class Editori); giurato al concorso Uovo d’Oro (per La prova del cuoco); vice-presidente di giuria del Premio Luigi Veronelli.