Nel recente convegno su Veronelli, all’univeristà di Pollenzo (24 maggio), Cesare Pillon è stato l’unico relatore ad aver preparato un intervento scritto. Gli altri (Carlin Petrini, Daniele Cernilli, Nichi Stefi, Nicola Perullo, io) sono andati a ruota libera.
E’ un intervento che sintetizza in modo molto efficace e puntuale (con ricorso, a tratti, di un accento ironico di cui Cesare è maestro) il significato, e la relativa incidenza sul vivere sociale, del pensiero e dell’opera veronelliani.
Mi piace perciò riproporlo a chi a quel convegno non ha potuto essere presente. (Gian Arturo Rota)
Non esagero: l’incontro con Luigi Veronelli ha cambiato la mia vita.
Peccato che l’abbia conosciuto quando avevo già 48 anni: se ci fossimo incontrati quand’ero giovane chissà, forse avrei capito prima quale indirizzo dare alla mia vocazione giornalistica… Ma non è della mia vicenda personale che intendo parlare stasera. Vi ho fatto cenno e continuerò ad accennarne, ma solo perché ritengo sia paradigmatica: non sono certo stato il solo a essere folgorato sulla via di Damasco dalla suggestione delle sue idee.
La vitivinicoltura italiana non sarebbe quella che è oggi se non ci fosse stato lui, con le sue prediche tutt’altro che inutili, con le sue intuizioni, e anche con le sue ire, con i suoi anatemi.
Io credo che Gino Veronelli sia stato l’unico giornalista ch’è riuscito a realizzare l’obiettivo che Eugenio Scalfari persegue vanamente da una vita: quello di incidere veramente sulla storia d’Italia.
L’unico? Potreste replicare: e Carlin Petrini? Guardandoci intorno, questa splendida Università dice quali risultati è riuscito a ottenere. Però Carlin, per poter fare la sua rivoluzione, ha dovuto creare un movimento, un’organizzazione. Veronelli no, Veronelli ha usato esclusivamente gli strumenti del giornalista: le parole.
Ma come diceva Carlo Levi le parole sono pietre, e con quelle pietre è stato edificato il Rinascimento del vino italiano. Non da Veronelli soltanto, naturalmente, ma da tutti coloro che avevano compreso il suo messaggio.
Ecco, è questo il punto che ritengo sia il caso di approfondire: a chi si rivolgeva Gino? Con chi trovò modo di comunicare? Chi riuscì a mobilitare? Adesso che il suo sterminato archivio è stato riordinato da Gian Arturo Rota dovrebbe essere più facile ricostruire l’impatto e l’effetto dei suoi interventi giornalistici.
Se è indubbiamente vero che la notorietà più vasta Gino se l’era conquistata alla Tv grazie alla trasmissione “A tavola alle sette” con Ave Ninchi, io ritengo che l’influenza più incisiva sul mondo del vino l’abbia esercitata mediante la rubrica settimanale che tenne su Panorama dal 1969 al 1981.
E qui, scusate se torno a riferirmi alla mia esperienza personale, io stesso, quando lo incontrai per la prima volta, ritenevo di conoscerlo già attraverso quella rubrica: non avevo mai avuto il tempo di realizzare un archivio dei miei articoli, ma avevo archiviato i suoi incollandoli uno a uno su altrettanti cartoncini. E li avevo letti e riletti, al punto che, quando incontravo l’immancabile “Lettor mio, amica mia paritaria”, avevo l’impressione che si rivolgesse proprio a me.
Segnalando ogni volta un vino, che descriveva nelle sue qualità organolettiche, Gino riusciva attraverso di esso a evidenziare un problema, fosse la necessità di abbassare le rese di uva in vigna per migliorare la qualità, fosse l’invettiva polemica contro le assurdità della legge sulle denominazioni d’origine che inchiodavano la produzione vinicola italiana a un triste destino di bevanda di massa, fosse la denuncia della inadeguatezza dei tecnici enologici al ruolo che avrebbero potuto svolgere.
Giustamente Luciano Ferraro, in un articolo molto bello che ha scritto sul Corriere della Sera per annunciare l’incontro di oggi, sottolinea che Veronelli si è rivolto in primo luogo ai vignaioli, ai contadini, agli uomini e alle donne “con l’anima avvolta nella terra”.
E Carlin Petrini, da lui interpellato, conferma: “Ha avuto la capacità, prima ancora intellettuale che organolettica, di parlare ai contadini”.
E’ talmente vero che nei miei ricordi c’è la straordinaria riuscita della “Giornata della disobbedienza vignaiola” da lui voluta alla Certosa di Pavia il 31 ottobre del ‘93 su un tema controverso: l’arricchimento del tenore alcolico del vino quando la vendemmia difficile fa prevedere una gradazione troppo bassa.
Gino considerava sbagliata e ingiusta la legge italiana che proibisce l’uso del saccarosio, praticato per lunga tradizione in Francia, e impone invece l’utilizzo del mosto concentrato rettificato, molto più costoso, ragion per cui la differenza di prezzo doveva essere coperta da sovvenzioni dell’Unione europea, con un grosso sperpero di denaro pubblico.
Ma lui ne faceva prima di tutto un problema di qualità: il saccarosio ha sapore assolutamente neutro, mentre il mosto concentrato, anche se rettificato, modifica le caratteristiche organolettiche del vino.
Era una questione complessa, difficile perfino da spiegare, ma lui aveva saputo farsi capire benissimo a tutti i livelli, tant’è che durante la manifestazione aveva accanto due produttori che più diversi non potevano essere: un contadino a tempo pieno come Romano Dogliotti e una vignaiola della domenica come l’attrice Ornella Muti. Ma di produttori ce n’erano molti, affascinati dal gesto di ribellione che Veronelli aveva inventato per l’occasione: munirsi ognuno di una di quelle bustine di zucchero con cui al bar si addolcisce il caffè e versarla nel mosto che stava fermentando in un tino portato sul palco. Una palese violazione della legge che comportò anche denunce.
Ma per il libertario Veronelli Luigi era giusto ribellarsi alle leggi ingiuste.
Ho voluto rievocare quell’episodio perché evidenzia un fenomeno su cui sono convinto ci sia ancora parecchio da scoprire: con la sua rubrica su un newsmagazine come Panorama, allora di impostazione diciamo così progressista per semplicità, Veronelli poteva sperare di rivolgersi a una élite agricola acculturata e moderna ma comunicava di sicuro più direttamente con una borghesia urbana illuminata.
Ornella Muti, che allora produceva Dolcetto in una tenuta dell’Ovadese appena comprata, era la classica punta dell’iceberg del fenomeno a cui accennavo, e il fenomeno era rappresentato dalle decine di esponenti della borghesia urbana che in quegli anni, sedotti dagli insegnamenti di Gino, decisero di tornare alla terra acquistando cascine e vigneti per produrre vino di pregio.
Per alcuni di essi l’impegno nella produzione enologica era ed è molto indiretto: il vino, per loro, è un investimento, un modo come un altro per diversificare la loro attività. Ma molto più numerosi sono stati invece finanzieri, imprenditori, professionisti, top manager, ma anche attori e cantanti che alla produzione di nobili vini si sono dedicati davvero in prima persona, dirigendo sia pure part-time una loro azienda non tanto per trarne degli utili (che non fanno mai dispiacere, si capisce), ma per soddisfare una passione segreta: spesso per orgoglio, talvolta per cultura, quasi sempre per ambizione, in ogni caso perché conquistati dal carisma di Gino.
Quanto deve il vino italiano a questi personaggi venuti da altre esperienze, che hanno portato nelle vigne una mentalità imprenditoriale moderna, capitali oculatamente amministrati, idee innovative, capacità manageriale, e soprattutto la volontà di fare esclusivamente vini di qualità? Molto, moltissimo: se la vitivinicoltura italiana ha trovato la strada del Rinascimento lo deve anche a loro. Ed è merito di Veronelli di averli trascinati col suo entusiasmo.
Il mio auspicio è che adesso la sua figura venga studiata e analizzata anche sotto questo profilo, cioè per la straordinaria capacità che aveva di mobilitare le coscienze.
Indubbiamente però, un personaggio multiforme come Gino si presta a mille tipi di indagine. E’ stato un vulcanico editore: con Giovanni Emanuele Barriè pubblicò una rivista di filosofia teoretica neo-trascendentalista, Il pensiero, e con Lelio Basso diede alle stampe il periodico I problemi del socialismo, collegando queste due pubblicazioni ad altrettante collane di libri. Poi, visto che filosofia e politica non rendevano, sotto il profilo economico, pubblicò un’opera di De Sade. Era “Historiettes, contes et fablieux”, mi raccontò durante un’intervista.
“Roba che adesso darebbero da leggere alle educande. Ma allora, era il 1956, lo scandalo ci fu, e come: mi sequestrarono il libro e mi fece-ro un processone. E la cosa peggiore fu che non trovai solidarietà neppure tra uomini di cultura come Pannunzio, il direttore del Mondo, che la considerarono un’operazione porno-grafica. Risultato: del libro avevo stampato 2 mila copie, e ne avevo vendute 56… Un vero disastro”.
A salvarlo fu l’incontro con un grande cuoco, Luigi Carnacina, con il quale pubblicò presso Garzanti, nel ’59, La grande cucina, che lo fece conoscere come gastronomo. “A occuparmi di vino ci sono arrivato solo allora. Del resto, sono nato sotto il segno dell’Acquario”, sottolineava con ironia: “neanche gli astri avevano previsto questa mia passione”.
In ogni caso il suo fu un esordio alla grande: I vini d’Italia, pubblicato da Canesi, era il primo libro scritto su questo tema dopo 400 anni.
Credo siano meritevoli di attenzione e di studio anche i due temi principali su cui si concentrarono le prediche di Veronelli: la teoria dei crus e l’uso della barrique. Lo dico perché vedo con preoccupazione intensificarsi polemiche di retroguardia proprio su questi due punti, e l’intensificazione è favorita dalla facilità con cui qualsiasi vaniloquio viene oggi enfatizzato on line, sulla rete. E poiché l’abuso del cru e della barrique è effettivamente assai diffuso, è sempre incombente il rischio che, per reazione, insieme all’acqua sporca venga gettato anche il bambino.
Non c’è da stupirsi, comunque, del livore che si intuisce, sotto queste polemiche, nei confronti di Veronelli: anche quand’era in vita il suo indice di sgradimento, da parte di chi lo contestava, era altissimo.
Mi ricordo che quando mise fine alla collaborazione con Panorama per un banale contrasto di natura contrattuale con la Mondadori e distratto com’era si dimenticò di spiegarlo ai lettori nella sua ultima puntata, ci fu chi gli scrisse a casa, rallegrandosi con feroce sarcasmo perché lo avevano cacciato.
Infine, posso esprimere una speranza? Ecco: mi piacerebbe che un linguista, che so?, o un semiologo, analizzassero il sofisticato impasto di lingua e dialetto, le citazioni bizzarre, il gusto della provocazione intellettuale, e soprattutto l’irripetibile costruzione del periodare di Gino.
Io non sono mai riuscito a spiegarmi il fascino che esercitava, e non solo su di me, quel suo modo di scrivere. Lo sfottevo affettuosamente, dicendogli che scriveva in barocco bergamasco, ma sentivo che quello stile, che nel suo articolo Luciano Ferraro ha definito “dotto, a tratti arcaico, ricco di citazioni di poeti del Duecento, santi, pensieri kantiani o hegeliani”, era opera di un personaggio non a una sola dimensione, pieno di umori vitali, con interessi e curiosità fuori del comune.
Cesare Pillon