È morto Luigi Veronelli, Gino per chi lo conosceva o fingeva di conoscerlo quando poteva servigli.
Ne ho visti tanti, soprattutto tra quelli che oggi ne tessono le lodi post mortem.
No, io non l’ho mai conosciuto Luigi Veronelli, ma l’ho bevuto, questo sì.
Ho bevuto i vini che amava e il modo tutto suo di raccontarli. L’ho anche sfiorato, diverse volte, una pure ci hanno presentati e abbiamo scambiato quattro parole, ma conosciuto no.
Avrei voluto, eccome, perché rappresentava un modo di amare e raccontare il vino e la terra e i buoni sapori che nei salotti enogastronomici trova sempre un ascolto distratto.
Sono cresciuto nel leggere Veronelli e nell’intravvedere al di là delle parole uno sguardo rivolto alle colline, alle uve, agli uomini e alle donne delle campagne.
Poi, negli ultimi anni questo suo riappropriarsi dell’anarchia di sempre, della voglia di dare al vino un valore anche sociale e politico.
Da grande sognatore, col naso ben piantato nel bicchiere. A sostenere cocciuto e caparbio che “è meglio il peggior vino contadino del miglior vino dell’industria”.
Beh, a me piaceva il suo modo di narrare i sapori, i profumi e le persone.
Unico, tra tutti quelli che scrivono di vino.
Michele Marziani, giornalista